Si intitola Tempo con bambina (Bompiani, euro 16) ed è l’ultimo libro di Lidia Ravera. Il terzo, su una trentina, in cui l’autrice parla della propria vita, dopo Bambino mio (1979) dedicato al figlio e Sorelle (1994) dedicato alla sorella Mara, scomparsa prematuramente. Un dialogo, quello tra Lidia e Mara, che non si è mai interrotto e continua proprio in questo Tempo con bambina, nel quale l’autrice racconta alla sorella com’è diventare nonne, oggi. Perché Maddalena, la figlia di Mara che Lidia ha cresciuto come propria, qualche anno fa è diventata madre. Ed è la scrittrice che Mara Piccola chiama nonna. “Il mio posto è il tuo posto. Non riesco a dimenticarlo”, scrive Ravera alla sorella. È una “nonnità” nuova quella descritta in questo libro. Diversa da come siamo stati abituati a pensarla. Un tempo nuovo, vivificante, fatto di scoperte continue e inaspettate.
TEMPO CON BAMBINA
PASSAGGI
Lei scrive: “Sono diventata nonna in una fase della vita che i cliché descrivono come arida, melanconica e ipocondriaca. Oppure come saggia, tenera e riconciliata. In entrambe le visioni: vuota”. Con questo libro lei ribalta lo stereotipo e racconta, invece, un altro modo di essere nonne. Che appartiene alla sua generazione, quella del Sessantotto. Era il suo intento?
Certamente questo è un capitolo dell’autobiografia collettiva della mia generazione che io ho scritto attraverso una trentina di romanzi a partire da Porci con le ali (1976) in cui raccontavo la nostra adolescenza, fino a Terzo tempo (2017) che fa parte di una quadrilogia che ho dedicato all’invecchiare. Tempo con bambina racconta una nonnità diversa perché noi siamo donne diverse. Abbiamo deciso di diventare madri perché lo volevano, non perché pensavano fosse il nostro destino o perché, senza figli, saremmo state “donne mancate” come mia madre chiamava la mia maestra di pianoforte, che era peraltro una concertista stupenda. Ora che ci attendono gli ultimi venti o trent’anni di vita, attraverso i figli dei nostri figli abbiamo l’occasione di guardare l’inizio dell’esistenza. La nascita di mia nipote mi ha consentito di seguire da un punto di vista ravvicinato i primi tre anni di vita di un essere umano ed è un’esperienza estremamente emozionante. Un regalo. Un tempo le donne passavano dall’essere oggetto del desiderio maschile all’essere madri. Quando i figli crescevano, loro non esistevano più, cadevano in una sorta di buco nero. Oggi la maternità non schiaccia la nostra identità, ma la arricchisce. Noi siamo il nostro lavoro, il nostro pensiero, la nostra vita relazionale, esattamente come quando eravamo giovani. Facciamo le nonne non per tornare ad avere un ruolo sociale, ma perché lo desideriamo.
Il suo rapporto con Mara Piccola è complice, giocoso, vitale. La cito ancora: “Ai figli dei figli si insegna, dai figli dei figli si impara”. Che cosa?
Mara Piccola vive in Texas con i suoi genitori, la vedo poco. Dovendo compensare in intensità quello che perdo in continuità, quando sono con lei passo tutto il tempo a giocare e ritrovo esattamente quella dimensione riassunta nel titolo del libro: tempo con bambina. Che è un tempo presente. I bambini non guardano né avanti né indietro, vivono nel presente: dove si gioca, si mangia, ci si abbraccia. Non c’è attesa, non c’è nostalgia. Da loro si impara questo, ma non solo. C’è anche l’attenzione. Mia sorella me l’aveva detto: “Stai attenta, perché la vita prende luce dalla fine: solo allora ti accorgi che sei stato un viaggiatore distratto”. Quando sai che il tuo tempo sta per finire noti mille cose che non avresti visto altrimenti; e lo stesso succede quando ti abbassi all’altezza di una bambina di tre anni e ti lasci portare da lei. Infine, quello con bambina è anche un tempo della ripetizione. Noi adulti la consideriamo un disvalore, cerchiamo sempre il cambiamento: invece ogni volta che ripeti approfondisci.
“Non è uscita dal mio corpo, non la nutro se non per mezzo di un cucchiaino. Non c’è niente di scontato, fra noi due. Perciò devo lavorare di seduzione”: è bellissima, e spiazzante, questa idea che l’affetto, anche tra parenti, bisogna conquistarselo.
Ho sempre pensato che la famiglia fosse il luogo della sciatteria relazionale e ho sempre lottato contro questo, anche con mio figlio Nicola. Quando era piccolo gli facevo un regalino tutti i giorni: volevo conquistarlo, esattamente come si fa con gli amici e gli innamorati, senza dare il suo affetto per scontato. Con una nipote, nei confronti della quale non hai responsabilità educative e puoi metterti totalmente sul piano del piacere, vale ancora di più.
Pensa che gli uomini e le donne della sua generazione si siano impegnati a superare questa “sciatteria relazionale” come ha fatto lei?
Sicuramente le famiglie sono cambiate, alle donne non basta avere un tetto sulla testa e un ruolo che le giustifichi agli occhi del mondo: chiedono di più alla vita matrimoniale e infatti molte unioni finiscono. Conosco un numero sempre maggiore di donne che guadagna più del marito; e tutte noi insegniamo alle nostre figlie l’importanza dell’indipendenza economica, fondamentale per sottrarsi ai cattivi matrimoni.
Lei sostiene che la scrittura è un anestetico contro il dolore: funziona?
Sì, perché con la scrittura il dolore viene spartito e diventa utile anche agli altri. I libri più universali che ho letto sono quelli di Lalla Romano, la quale scriveva dei fatti suoi, citando le persone addirittura con nome e cognome. Ma andava talmente nel profondo che le storie che raccontava diventavano universali, perché la condizione umana è la stessa per chi scrive e per chi legge. Partendo dal tuo dolore arrivi a raccontare quello di tutti. E poi per me scrivere è un modo di mettere ordine nella vita. Quando non scrivo non riesco a sentire le giornate, non mi sento vivere. Facendolo, metto la mia vita a disposizione degli altri: perché tutte le vite sono diverse e tutte le vite sono uguali.