Mettere al mondo il mondo

L’Osservatore Romano pubblica il testo della lectio magistralis che Silvia Vegetti Finzi, a lungo docente di psicologia dinamica presso il dipartimento di filosofia dell’università di Pavia, ha tenuto al Festival Filosofia di Modena il 16 settembre scorso.

«Mettere al mondo» è un’espressione impegnativa che rimanda alla creatività divina, a una potenza superiore capace di far esistere ciò che prima non c’era, di passare dal nulla all’essere, dalle tenebre alla luce, dal silenzio alla parola. Anche l’uomo possiede meravigliose capacità creative, con la differenza che mentre Dio crea ex nihilo, dal nulla, l’uomo ha bisogno di materia e di tecnica.

La produzione artistica crea un mondo che prima non c’era, una realtà imprevista, un’esistenza virtuale eppure capace di coinvolgere profondamente chi sa cogliere i messaggi che ci invia. Scrive Leonardo da Vinci nel Trattato della pittura intitolato Come il pittore è signore di ogni sorta di gente e di tutte le cose: «Se il pittore vuol vedere bellezze che lo innamorino, lui è signore di generarle, e se vuol vedere cose mostruose che spaventino, o che siano buffonesche e risibili, o veramente compassionevoli, lui n’è signore e dio» (paragrafo 13). Non basta tuttavia recepire passivamente i messaggi dell’arte, occorre lasciarsene invadere, farli propri e rielaborarli sino a diventarne coautori. La musica non esiste per chi non sa udire, la pittura per chi non sa vedere. L’arte è sempre comunicazione, interazione, impresa condivisa.
 
Ogni opera d’arte riuscita è un unicum, un capolavoro che, anche se riprodotto in un’infinità di copie, rimane tale. Migliaia di persone si recano ogni anno al Louvre per ammirare il ritratto della Gioconda ma il suo sorriso, benché inflazionato da una miriade di riproduzioni, rimane inimitabile.
 
Oltre alla creatività dell’arte esiste però anche un’altra attività che si avvicina alla creazione artistica ed è la generazione umana, la possibilità di dare alla luce un figlio e, con lui o con lei, di mettere al mondo il mondo. Ogni neonato porta con sé universi naturali e culturali, un passato e un futuro, una storia e un destino. Eppure non sempre siamo consapevoli degli orizzonti che si dispiegano al suo apparire. Ma vi è rimedio alla nostra individuale insipienza.
 
La cultura ci offre infatti la straordinaria opportunità di superare i limiti personali utilizzando la capacità dell’arte di esprimere e condividere l’impensabile, l’indicibile. Mi auguro, com’è avvenuto in passato, che il mondo della vita e il mondo dell’arte riprendano a dialogare e che gli artisti, uscendo dall’ombra dei musei e delle gallerie, ci aiutino a superare lo spaesamento in cui ci troviamo. Ma, prima di aprire il confronto, fermiamoci un momento a considerare la creatività insita nella filiazione umana.
 
Come sapete, alla generazione concorrono due elementi, uno maschile e uno femminile per cui, paradossalmente, nella grammatica della vita, uno più uno fa tre. Ma i due sessi sono implicati in un modo profondamente diverso, una dissimmetria che la mitologia greca ci aiuta a decifrare.
 
Si narra che, dopo un bisticcio tra Zeus ed Era su chi fosse più capace di amare, l’uomo o la donna, l’indovino Tiresia, che si era incarnato in entrambi i sessi, interpellato rispose: «Se l’amore è dieci, all’uomo spetta uno e alla donna nove, perché la donna ama con l’anima». Lacan, con il solito acume, fa osservare che nove sono i mesi della gravidanza ed è quindi nell’attesa, nel periodo che va dalla fecondazione al parto, che si forma il plusvalore dell’amore femminile, dell’amore materno.
 
Ma la potenza di generare fa paura e gli uomini hanno sempre cercato di controllarla più che comprenderla. Anche per questo la donna costituisce un mistero che ci interroga senza trovare risposta. Euripide la definisce «un ambiguo malanno», di «eterno femminino» parla Goethe, di «continente nero» Freud.
 
Ma il modo con cui l’enigma femminile interroga la cultura varia secondo i periodi storici. Nell’Ottocento il problema riguardava la sessualità, quando le fantasie erotiche femminili, inibite dal moralismo borghese, trovavano modo di esprimersi solo indirettamente nei sintomi isterici. Nel Duemila invece la sessualità femminile, ormai riconosciuta e accettata, ha lasciato il posto a un altro oscuro malessere, quello della maternità. La maternità è l’impensato della nostra epoca.
 
Un progetto vitale, quello materno, eppure difficile da inscrivere nella biografia femminile e nella trama sociale. Nonostante gli sforzi di conoscerla, controllarla e sostituirla, la maternità conserva una componente di imprevedibilità che sconcerta.
 
Nella società degli individui, basata sull’io e sul mio, difficile ammettere che per generare occorre chiedere l’apporto dell’altro, che nessuno basta a se stesso. Una complementarietà che persiste persino nella fecondazione eterologa, quando il partner, ridotto a materiale genetico, diviene scambiabile come il denaro.
 
In ogni caso nessuno diventa padre o madre da solo, né semplicemente perché lo vuole e quando vuole. Ci illudiamo che il desiderio di maternità sia un’esigenza blanda e programmabile da mettere in agenda tra altre scadenze, gli studi, il lavoro, la convivenza, il matrimonio, il mutuo per la casa.
 
Ma non è così perché, nonostante ogni tentativo di addomesticarlo, il desiderio di figlio, soprattutto quando è rimasto a lungo inascoltato, può fare irruzione nella nostra vita improvvisamente, con l’impeto della passione. E dopo, nulla sarà più come prima.
 
È vero che l’attitudine materna non richiede necessariamente di realizzarsi attraverso il corpo, che si può essere madri simboliche pensando e agendo maternamente. Ma il paradigma di riferimento rimane in ogni caso quello di dare alla luce un bambino perché quel processo rivela con particolare evidenza la creatività della generazione umana.
 
Una generazione prossima per certi aspetti a quella animale, per altri radicalmente diversa. Per la nostra specie infatti non si tratta mai di ri-produzione ma sempre di pro-creazione. Ogni bambino è un’opera d’arte, un capolavoro unico e irrepetibile e la madre è il suo artista.
 
Nonostante la filiazione costituisca una delle espressioni più alte dell’umanità, stenta tuttavia a trovar posto in una società che, smarrito l’orizzonte del futuro, vive qui e ora, nella precarietà del presente. Promosso a parole e ostacolato nei fatti, il progetto materno rischia, nella vita delle donne, di costituire un aspetto secondario rispetto ad altre priorità.
 
È vero che molte cose sono cambiate e la maternità non rappresenta più, com’è avvenuto per secoli, l’unico destino femminile. Ma, proprio per essere diventata una scelta affidata all’autodeterminazione, incontra nuovi, imprevisti ostacoli. Come sostiene Fromm, la libertà fa paura e induce alla fuga. Tanto più quando mancano il tempo e lo spazio per riflettere, quando non è stata prevista nessuna formazione e alle giovani donne, decise ad affrontare un’impresa così coinvolgente, non resta che navigare a vista, senza una mappa che le orienti. Molte di loro non hanno mai stretto un neonato tra le braccia, non hanno risposto al suo pianto, non hanno mai avuto l’opportunità di accudirlo. E, in mancanza di sollecitazioni e di motivazioni, è difficile cogliere l’appello di un figlio che, prima o poi, risuona in ogni donna. Un richiamo al quale lei può rispondere: sì, no, più tardi, mai. L’importante è che lo colga perché solo così può riconoscere le sue potenzialità e ricomporre l’identità femminile e materna.
 
Nelle ultime generazioni le energie femminili, precocemente indirizzate su altri obiettivi — lo studio, il lavoro, la carriera, la partecipazione sociale — investono il versante materno sempre più tardi, spesso quando scocca l’ultimo minuto dell’orologio biologico.
 
I motivi oggettivi della denatalità (disoccupazione giovanile, impieghi precari, retribuzioni insufficienti, crisi della coppia e della famiglia) sono evidenti. Una società che manca di promesse e di attese non avverte la necessità di promuovere e sostenere progetti che richiedono tempi di lunga durata. Solo il desiderio femminile può rivoluzionare il calendario sociale ponendo in primo piano la possibilità, non l’obbligo sia chiaro, di dare alla luce un figlio per sé e per il partner, ma anche perché la società viva e si proietti nel futuro.
 
Tuttavia questa prospettiva gode di scarsa considerazione, prevaricata com’è da altre richieste, da altre urgenze. I programmi scolastici comprendono corsi di “educazione alla sessualità” ma trascurano la formazione alla genitorialità, come se diventare padri e madri fosse un compito naturale, spontaneo, ovvio. Ma, dopo secoli di civiltà, la dimensione naturale ha perso ogni evidenza e spetta alla cultura evocarla, interrogarla e comprenderla.
 
Le bambine, nel momento in cui affrontano la definizione di sé, si chiedono come divenire donna non come divenire madre, come se le due prospettive non potessero essere pensate contemporaneamente. Omologate ai coetanei maschi, hanno dimenticato il compito specifico di dare alla luce, di mettere al mondo. Compito che pertiene anche agli uomini ma che nelle donne si svolge in modo diverso.
 
Nella genealogia femminile nonna, madre, figlia e nipote si susseguono fluendo entro corpi femminili, compenetrate l’una nell’altra come le matrioske russe. «Per ogni donna — scrive Winnicott — vi sono sempre tre donne, la bambina; la madre; la madre della madre… Che abbia bambini o che non ne abbia, la donna si trova in questa sequenza senza fine; … ella comincia da tre, mentre l’uomo comincia con l’urgenza di essere uno. Essere “uno” significa essere solo, ed esserlo sempre di più».
 
Il corpo femminile, prevalentemente cavo, è predisposto ad accogliere il prodotto generativo, sebbene la mente non sempre condivida quella disponibilità. Ed è proprio il divario tra organico e psichico che ci consente, contrariamente agli animali, di scegliere e decidere liberamente.
 
È vero che anche il padre può svolgere funzioni materne, ma in modo diverso rispetto alla madre perché non conosce le precognizioni dell’attesa, il corpo a corpo della gravidanza, l’interazione del parto, la complementarietà dell’allattamento. E soprattutto non deve affrontare l’impresa più ardua: accettare che l’oggetto d’amore, che è stato per nove mesi tutt’uno con la madre, progressivamente se ne allontani per divenire se stesso, magari diverso da come lei lo aveva sognato e cresciuto.
 
Il figlio, per gli uomini, giunge dal di fuori, per le donne dal di dentro.
 
Quando la nuova vita si annuncia, magari in modo imprevisto e inopportuno, può suscitare ambivalenze e conflitti. Reticenze che possiamo cogliere nel silenzio della gestante quando cerca, per quanto possibile, di tener segreto il suo stato. Non solo nei confronti del datore di lavoro per timore di provvedimenti negativi, ma anche della madre che pure ama, delle amiche del cuore, persino del partner, come se non esistesse il momento opportuno per condividere l’attesa, né parole per comunicarla.
 
Questa difficoltà si riverbera anche sulla relazione di coppia. Molti uomini si sentono soli mentre stanno per diventare padri. Se non ricevono dalla compagna immagini, motivazioni ed emozioni, se non vengono coinvolti nell’avventura che lei sta affrontando, la loro attesa rimane vuota e il desiderio inerte.
 
Ma la capacità di vivere appieno un’esperienza così importante dipende, non solo dai protagonisti, ma anche dalla società, dalla cultura e dall’ambiente circostante in cui, spesso inconsapevolmente, siamo immersi. È significativo che nel teatro tragico, che ha dato forma alle nostre passioni, sia affidata al coro una funzione essenziale. I coreuti accompagnano gli attori, li ascoltano, li interpellano, fanno eco alle loro parole, ne moderano i sentimenti, spesso eccessivi, richiamandoli al comune sentire, alla morale condivisa della polis.
 
Nulla di simile in una società impersonale e disgregata come la nostra dove la privacy, non la partecipazione, sembra diventato il problema più importante. Ma nessuno pensa da solo, in mancanza di ascoltatori, d’interlocutori, di codici espressivi, di sentimenti condivisi, di uno scenario predisposto. Poiché l’anonimato non favorisce la consapevolezza di sé, l’introspezione, la condivisione, non possiamo stupirci se, nella solitudine di una vita troppo affollata, i mesi che precedono il parto sono spesso vissuti con indifferenza. Relegati nella preistoria dell’esistenza, costituiscono un tempo sospeso tra un prima e un poi, una sorta di limbo che esonera la gestante dall’impegno di immaginare, di pre-vedere, con il cuore e con la mente, l’evento che sta per accadere, il bambino che verrà. Col rischio che uno degli episodi più importanti della nostra storia accada mentre siamo impegnate a fare altro e la vita proceda senza di noi.
 
Dovremmo invece riconoscere in quelle nove lune un’occasione per attivare ed esprimere le nostre potenzialità e prepararci a ricevere come merita “l’ospite più atteso”. Di fatto è così in termini materiali. Nonostante la crisi che stiamo attraversando, i nuovi nati non mancano di nulla, anzi spesso hanno troppo per le loro sobrie necessità. Ma la caterva di oggetti che li subissa spesso nasconde il vuoto di una disponibilità vera, di una sintonia concertata, di un incontro condiviso.
 
Recentemente mi è capitato di ascoltare una giovane madre dichiarare con orgoglio «Ho trascorso nove mesi come nulla fosse: non ho mai smesso di lavorare, viaggiare, uscire la sera, calzare tacchi a spillo». Quel “nulla”, così simpatico e disinvolto, rivela una perdita molto grave per la realizzazione di sé e la relazione con il figlio.
 
Affidata a una gestione medica sempre più pervasiva, la gestazione tende a essere scandita dal calendario delle visite e degli esami diagnostici. Confida una donna divenuta recentemente mamma: «Durante la gravidanza non riuscivo a pensare ad altro che al risultato dell’ultimo controllo».
 
Ciò che resta escluso dal programma sanitario è la capacità di animare con la fantasia il tempo dell’attesa, di accompagnare le metamorfosi del corpo con le metamorfosi dell’anima. La madre è sempre una donna nuova e se è vero che quando nasce un bambino nasce una mamma, non sarà una qualunque ma la sua mamma.
 
In molti momenti della gravidanza le donne si sentono sole, fragili e inadeguate al compito cui sono state chiamate, ma a ben vedere non sono mai sole. In un paese come il nostro, un patrimonio artistico d’inestimabile valore attende di essere evocato, rianimato, interrogato, assimilato per dar forma ai pensieri e immagini agli affetti. Com’è avvenuto per secoli, l’avventura di mettere al mondo può essere rappresentata e condivisa attraverso l’arte, grazie alla capacità degli artisti di cogliere l’universale nel particolare, di parlare a tutti rivolgendosi a ciascuno.
 
Le risonanze dell’arte ci fanno ritrovare ciò che siamo e riconoscere ciò che, inconsapevolmente, avevamo sempre saputo. Anche se in questi anni la produzione artistica sembra essersi allontanata dal tema delle origini, il passato ci offre potenti rappresentazioni immaginative della vicenda materna.
 
Freud sostiene che gli artisti sulla via della verità ci precedono sempre. Ma forse, per quanto riguarda la maternità, hanno camminato così in fretta da lasciarci indietro anche se, deprivate come siamo di conoscenze istintive e di competenze acquisite, avremmo più che mai bisogno del loro aiuto. Nel tentativo di colmare il divario tra arte e vita cercherò pertanto di aprire un dialogo tra la maternità, in potenza o in atto, e le rivelazioni dell’iconografia religiosa che, illustrando la storia di Gesù, ha parlato anche di noi, indipendentemente dalla nostra fede.
 
Noi, esseri umani, in confronto agli animali ci sentiamo orgogliosamente superiori, dotati di conoscenze ed esperienze loro negate. Ma non è sempre così e il primato che ci attribuiamo non viene mai messo in crisi come nel momento della fecondazione. Quando scatta la scintilla di una nuova vita le femmine dei mammiferi registrano immediatamente l’evento, tanto da rendersi per tutta la gravidanza indisponibili all’accoppiamento. In seguito anche il parto e l’allevamento dei cuccioli saranno guidati da direttive istintuali efficaci e protettive.
 
Per la maggior parte delle donne invece la fecondazione avviene senza che ne siano consapevoli, in loro assenza. Paradossalmente verranno a conoscere solo successivamente, dal di fuori, dai test di gravidanza, un evento che è accaduto dentro di loro, nell’intimità del corpo, nell’alchimia degli umori. Eppure la fecondazione opera una vera e propria rivoluzione nell’organismo femminile, un’esplosione microscopica paragonabile, per potenza creativa, al Big-Bang che ha dato origine all’universo.
 
Freud sostiene che tutto ciò che accade nel corpo viene registrato dalla mente ma evidentemente non tutto viene recepito dalla coscienza. Sappiamo però che anche i vissuti non vissuti vengono conservati nella memoria profonda. Una memoria senza ricordi ma capace di influenzare il nostro sentire e di manifestarsi, in momenti di difficoltà, sotto forma di sintomo.
 
Non è quindi irrilevante che la fecondazione, uno degli eventi più importanti che possano accadere nell’organismo, un evento in senso lato traumatico, succeda e proceda, almeno sino a un certo punto, in modo automatico, senza che la mente vigile lo registri, che l’immaginazione lo rappresenti e il pensiero riflessivo lo inscriva nell’autobiografia. Col rischio che il bambino nella pancia non sia accolto nella testa materna rimanendo impensato sino al parto.
 
Ma è sempre accaduto così? Il primo tempo dell’esistenza è sempre stato ignorato dalla mente e trascurato dalla cultura? La storia dell’arte ci dice di no, che esiste un patrimonio di rappresentazioni capaci di restituirci quanto è andato perduto, di aprire la nostra povera vita all’impensato.
 
Per secoli la cultura, assegnando alla maternità un’attenzione particolare, ha dato forma alle emozioni più segrete delle donne, comprese quelle che, relegate nell’inconscio, non sono mai diventate esperienza. I quadri dedicati all’Annunciazione ci comunicano una gamma di emozioni che, per quanto ci riguarda, non sappiamo riconoscere avendole rimosse per far posto a una razionalità fredda e spassionata.
 
Possiamo cogliere tuttavia, nelle reazioni manifestate da Maria Vergine all’annuncio dell’angelo Gabriele, sentimenti di obbedienza e renitenza, di accettazione e di rifiuto, di riconoscenza e indifferenza, emozioni di letizia e di paura, di felicità e di sgomento. Una gamma di stati d’animo che sfuggono alla consapevolezza delle madri terrene, rimaste prive di annunciazione.
 
Tuttavia, grazie al patrimonio artistico che abbiamo ricevuto in eredità, l’inconsapevolezza iniziale può essere superata ritrovando una dimensione che, non solo ci contiene, ma ci attraversa, ci anima, ci connette a noi stesse e agli altri. Le immagini dell’Annunciazione prese in esame si rivelano particolarmente capaci, anche per gli influssi di saperi esoterici quali l’alchimia, l’astronomia, la magia, di cogliere le espressioni dell’inconscio.
 
Vediamo nei primi tre quadri una rappresentazione dell’Annunciazione come un evento che giunge dal di fuori, che fa irruzione nell’intimità della casa suscitando, a seconda dei casi: reazioni di paura; di ritrosia; di quieta accettazione.
 
Con Leonardo da Vinci invece la maternità esce dalle mura domestiche per inserirsi nell’ambito della natura cui tutti apparteniamo. Lo sfondo del quadro, che sfuma nell’infinito, rivela che a ogni nascita il mondo si rinnova, si apre a imprevisti scenari, si dispone ad accogliere il futuro. Infine, nell’Annunciazione di Antonello da Messina, l’avvento si concentra nell’intimità dell’io, nella sacralità del corpo femminile, in una soggettività che contiene in sé la vita e che, distogliendo per un attimo lo sguardo dal Libro, si appresta a umanizzarla inscrivendo il figlio che nascerà nella storia e nell’autobiografia.
 
In conclusione, di fronte alla potenza evocativa delle opere d’arte, alla loro capacità di mettere in crisi le concezioni ovvie e scontate della generazione, a noi spettatori non resta che esprimere un sentimento di gratitudine per gli artisti che, come sostiene Freud: «sulla via della verità ci precedono sempre».