L’architettura delle città non aiuta le famiglie

Quando parliamo di sessismo solitamente ci vengono in mente frasi o situazioni in cui le discriminazioni sono abbastanza palesi. E allora ci arrabbiamo, prendiamo una posizione e cerchiamo, nei limiti del nostro potere, di scardinare i presupposti e i luoghi comuni su cui poggiano certe convinzioni. Tuttavia esistono forme di sessismo molto più consolidate e in un certo senso meno evidenti in cui, ancora, la nostra vita quotidiana è immersa.
Basta pensare, ad esempio, a come sono fatte le città, come sono strutturate le strade, le vie, i quartieri, come funzionano i mezzi di trasporto. Basta pensare a come sono fatte le città – dicevo – per rendersi conto che sono state architettate e organizzate da uomini che pensavano che il posto della donna fosse a casa, con i bambini.

“‘Il posto della donna è la casa’ è stato per secoli il principio a partire da cui l’architettura urbana ha edificato le città”, scrive Dolores Hayden, docente di storia dell’architettura urbana a Yale, in un saggio del 1980 intitolato What Would a Non-Sexist City Be Like? Il titolo del saggio rivela indirettamente che, secondo lo studio di Hayden, le città sono intrinsecamente sessiste, come nota anche un interessante articolo sul tema pubblicato recentemente su Motherboard. Ma cosa significa affermare che le città sono costruite in modo sessista? Prendiamo prima di tutto in considerazione lo stato dei mezzi pubblici, che sono probabilmente uno degli elementi in cui si riflette maggiormente l’avanzamento sociale ed economico di una città. Quando parliamo dello stato dei mezzi pubblici parliamo di due cose: da una parte della loro efficienza, di quanto sono in grado di coprire il perimetro della città; dall’altra il grado di sicurezza che garantiscono.

Susan Zielinski, che lavora per il Centro di Ricerca Trasporti dell’Università del Michigan, si batte da anni per la realizzazione di una rete di trasporti che sia il più possibile egualitaria ed efficiente. A questo proposito ha spiegato a Motherboard che gran parte del dibattito sul tema ruota attorno all’accessibilità e ai motivi per cui, per avere dei mezzi pubblici ben funzionanti, bisognerebbe garantire alle donne un’accessibilità differente rispetto a quella maschile, valutando anche la possibilità di istituire dei vagoni, se non addirittura degli interi mezzi, che siano solo femminili.

Potrebbe sembrare un’iniziativa, appunto, sessista, ma in realtà non lo è: si tratta semplicemente di adattare i trasporti pubblici alle esigenze del 50% della popolazione di una città, cioè le donne. Stando ai dati infatti sono soprattutto le donne a utilizzare i mezzi pubblici, e molto spesso si tratta di donne che lavorano e che gestiscono contemporaneamente una famiglia. Questo significa che, oltre ai viaggi standard per raggiungere il luogo di lavoro, le donne ne fanno in media molti altri, più brevi, per svolgere diverse commissioni. Le donne sono pagate tendenzialmente meno degli uomini e quindi dovrebbe essere garantito loro un sistema di pagamento diverso dei trasporti pubblici. Infine sono le donne a sentirsi più spaventate degli uomini quando utilizzano i mezzi pubblici, soprattutto di notte. Del resto, a chi non è capitato, almeno una volta, di trovarsi in una situazione sgradevole in metropolitana? È un tema, quello della sicurezza dei trasporti pubblici, molto caro anche all’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere, che ha lanciato, soprattutto negli ultimi mesi, diverse iniziative per sensibilizzare gli uomini al problema delle molestie in metropolitana.

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Per questa ragione le nuove generazioni di architetti stanno cercando di migliorare la situazione, pianificando nuove modalità di illuminazione dei trasporti, o sistemi veloci di passaggio da un vagone all’altro, pensando a quando, ad esempio, una donna si ritrova sola con qualche malintenzionato, all’interno di un vagone, da cui ha difficoltà a uscire.

Ma i trasporti sono solo un esempio microscopico e significativo della natura sessista delle città. Nel suo saggio Hayden osserva infatti che, al di là della cultura di origine, la maggior parte delle città è stata costruita per gli uomini, gli unici che, appunto, uscivano di casa per andare a lavorare, mentre le donne restavano a prendersi cura dei figli. Un elemento, questo che si nota bene se si osserva la distruzione dei quartieri residenziali rispetto al centro delle città, o se dà uno sguardo al modo in cui sono organizzati gli spazi comuni. Per gli uomini tornare a casa dal lavoro era un momento di stacco e di sollievo e per questa ragione i primi quartier residenziali vennero costruiti il più lontano possibile dalle zone industriali delle città. Il problema è che questa tendenza non è andata diminuendo quando, poi, anche le donne hanno iniziato a lavorare. Il risultato è che spesso le zone in cui si abita e quelle in cui si lavora sono lontane e gli spazi urbani che stanno nel mezzo tra il polo abitativo e quello lavorativo non sono pensati per i bisogni delle donne.

Un esempio di cosa significhi pensare ai bisogni delle donne è ben rappresentato dal progetto Frauen-Werk-Stadt (Women-Work-City): uno spazio urbano, ideato da architette donne e pensato per le donne. Si tratta sostanzialmente di un quartiere che, a differenza degli altri spazi della città, è stato pensato mettendo al centro i bisogni femminili e non quelli maschili: ci sono scuole, luoghi di lavoro, farmacie, medici, supermercati, e soprattutto piazze sicure. Frauen-Werk-Stadt è stato pensato nel 1993 e da allora è diventato il simbolo della necessità di ripensare le aree urbane in modo nuovo.

Il Frauen-Werk-Stadt ha sempre avuto tra i suoi principali obiettivi la promozione di aree comuni sicure. Perché un altro errore che commettiamo è quello di pensare che le zone centrali, e quindi più trafficate, delle città siano automaticamente più sicure. Lo pensiamo perché diamo per scontato che nei luoghi più affollati ci siano meno possibilità di essere aggredite e più possibilità di essere soccorse.

Ma è una convinzione sbagliata. Prima di tutto perché se i luoghi sono più affollati significa anche che aumentano le probabilità di incrociare qualcuno che vuole darci fastidio, e poi perché esiste in psicologia quell’effetto particolare chiamato bystanders effect (effetto spettatore), che spiega come mai, spesso, quando assistiamo a una scena pericolosa, in uno spazio pubblico, tendiamo a non intervenire. Riassumendo: perché scarichiamo sugli altri che stanno nel nostro stesso spazio la responsabilità, e pensiamo che “tanto qualcuno interverrà di sicuro.” Infatti, stando ai dati, la maggior parte delle molestie sessuali, a New York, avviene nelle zone più affollate: Times Square e Penn Station. Ora, è chiaro che non possiamo pensare che l’architettura delle città risolva un problema così radicato. Molestie e violenza sono fenomeni culturali; non a caso si manifestano nei confronti delle fasce considerate “più deboli” della popolazione: donne, omosessuali, transgender, e così via.

Ma dato che l’architettura è una forma di espressione culturale iniziare a pensarla diversamente e a concepirla anche “per tutti” è importante. Lo è non solo perché significa dare un segnale importante, ma soprattutto perché significa andare nella direzione di un miglioramento globale.

Fonte: senonoraquando-torino.it