Ha confessato la donna di Settimo Torinese: ha partorito il bambino in casa e poi l’ha gettato dal balcone, secondo piano di una palazzina. Il bambino era stato ritrovato ieri all’alba da due netturbini ed era morto poco dopo l’arrivo in ospedale. La donna ha 34 anni, è italiana, un compagno agente immobiliare e una figlia di tre anni. Interrogata dai carabinieri per tutta la notte, è crollata questa mattina all’alba.
Una tragedia che lascia attoniti, a pochi giorni di distanza da un episodio per certi versi analogo, avvenuto a Trieste: anche lì una ragazza aveva partorito in casa e abbandonato il bambino nel giardino condominiale. Anche lì ci si era stupiti per la parvenza di “normalità” della famiglia, per l’assenza di un disagio conclamato. Qui c’è differenza d’età: 34 anni, un compagno e una figlia non sono la stessa cosa che 16 anni e la solitudine. Ma forse c’è lo stesso non vedere un’alternativa. E il non sapere che è possibile partorire in sicurezza – per sé e per il bambino – e in anonimato, senza lasciare traccia del proprio nome, affidando il bambino a un’adozione.
Lo aveva detto subito, all’indomani dei fatti di Trieste, la Garante Nazionale per l’Infanzia e l’Adolescenza, Filomena Albano: «Anche i più giovani devono sapere che, anche se non si sentono pronti a diventare genitori, hanno delle alternative e possono comunque dare alla luce un neonato, che potrà vivere ed essere accolto in una famiglia che desidera crescerlo avendone la responsabilità. L’adozione è una enorme risorsa. L’Italia rispetta la volontà della madre di non essere nominata al momento del parto, nella massima riservatezza e senza giudizi colpevolizzanti, occorre diffondere la consapevolezza che esistono alternative a scelte drammatiche: le ragazze devono avere fiducia, devono chiedere aiuto e accettare aiuto, perché non sono sole».
«Non possiamo non sottolineare l’importanza di rafforzare la rete di prevenzione per scongiurare altri drammi, lavorando sulla comunicazione all’interno delle scuole, nei consultori, in tutta la rete dei servizi, per intercettare per tempo le situazioni di maggiore fragilità e per diffondere tra tutte le donne la conoscenza della legge italiana, che prevede la possibilità di tutelare il parto in anonimato in ospedale»: aveva detto Raffaela Milano, Direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the Children.
Cosa dice la legge
La legge italiana infatti consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’Ospedale dove è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Una maggiore conoscenza di questa opportunità contribuirebbe a diminuire i parti non assistiti, garantendo l’incolumità delle donne e dei bambini ed evitando gli abbandoni di neonati in luoghi non sicuri. Negli ultimi dieci anni il numero di neonati non riconosciuti alla nascita si è fortemente ridotto: erano 410 nel 2004 e sono stati 278 nel 2014, con un calo di oltre il 30%. Un calo che per Donata Nova Micucci di Anfaa può essere collegata al fatto che alcune sentenze recenti vadano nella direzione di indebolire la garanzia di anonimato, spingendo le donne a scegliere l’aborto o per l’appunto il parto in luoghi e modi infinitamente meno sicuri di un ospedale, con un aumento di infanticidi o di bimbi abbandonati in luoghi che mettono in pericolo la loro vita. «Una rilevazione effettuata da Anfaa fra il 2000 e il 2014 attesta un calo del 23% circa dei minori non riconosciuti alla nascita, come se il solo sapere che il Parlamento stava discutendo questa possibilità avesse portato le donne a fare altre scelte», ci aveva detto Micucci. Invece, con il parto in anonimato «a pochi giorni dalla nascita, il piccolo viene inserito in una famiglia adottiva, individuata dal Tribunale per i Minorenni fra quelle che hanno presentato domanda di adozione al Tribunale stesso: sono circa 300 all’anno i neonati non riconosciuti che, grazie a queste disposizioni, vengono adottati in Italia».
Cosa fare per far conoscere la legge
Per Raffaella Milano «casi come questi ci confermano l’importanza fondamentale di attivare ogni forma di attenzione nei confronti di chi vive condizioni di particolare fragilità sociale e psicologica, con il coinvolgimento attivo di insegnanti, pediatri, medici di famiglia, per diffondere ad ogni livello la conoscenza della possibilità di essere sempre assistite in ospedale durante il parto, dove si può partorire in totale anonimato, avendo la possibilità di dare alla luce il bambino in ospedale, senza l’obbligo di riconoscerlo alla nascita». Mentre Anfaa richiama l’urgente necessità che in situazioni come questa «i mezzi di informazione, oltre a stigmatizzare severamente l’accaduto, ricordino che le donne, sposate o no, comprese le extracomunitarie senza permesso di soggiorno, che non intendono riconoscere il proprio nato, hanno diritto a partorire in assoluta segretezza negli ospedali e nelle strutture sanitarie garantendo a se stesse e al neonato la necessaria assistenza e le opportune cure». Per scongiurare altri drammatici abbandoni o infanticidi, l’Anfaa ritiene indispensabile «che al più presto il Ministero della salute, d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni assuma le necessarie iniziative per la piena attuazione della normativa vigente in materia di riconoscimento e non riconoscimento dei neonati e di tutela del diritto alla segretezza del parto, per promuovere campagne informative al riguardo e per l’attivazione di tavoli di lavoro multidisciplinari che vedano la partecipazione di tutti gli attori coinvolti».
Fonte: vita.it