ROMA – Alessandro, nome di fantasia, ha nove anni. Tra i giocattoli che preferisce ci sono le bambole e nonostante la sua giovane età ha modi molto manierati rispetto ai suoi compagni. La prima a cogliere in lui atteggiamenti atipici e una forte preferenza nell’indossare abiti femminili è stata la madre, che si è rivolta agli esperti dell’Unità operativa complessa di psicologia del Policlinico Federico II di Napoli. Così da circa due anni sia Alessandro che la madre stanno seguendo insieme un percorso che cercherà di metterli a loro agio.
Pochi centri e poche risorse – Ma non sono soli. Non lontano da Napoli su circa 60 bambini affidati ai servizi sociali, 8 hanno dimostrato comportamenti atipici e una preferenza per giochi e attività di solito impiegati dall’altro genere. Questa è solo una piccola parte del lavoro che Paolo Valerio – professore di psicologia clinica all’Università Federico II di Napoli e presidente dell’Osservatorio Nazionale Identità di Genere – svolge nel capoluogo partenopeo. “Non voglio paragonare l’Italia alla Gran Bretagna, dove si registra una crescita importante dei casi – racconta Valerio – ma anche nel nostro paese il fenomeno non è da trascurare. Abbiamo pochi centri di accoglienza, che tra l’altro sopravvivono grazie alle proprie forze, ma sempre più genitori che si rivolgono a loro”.
Un dato confermato anche da Damiana Massara, coordinatrice della commissione minorenni della Onig. “In realtà non possiamo parlare di un aumento del numero dei bambini che manifestano la disforia di genere, ma di una maggiore attenzione da parte dei genitori che ora sanno a chi rivolgersi. Gli stessi gruppi di ricerca si sono resi conto che la disforia di genere non poteva non essere considerata anche in bambini piccoli”. Un altro elemento che la coordinatrice sottolinea è la differenza tra bambini e adolescenti: “A contattarci sempre più spesso sono i genitori dei bambini che dimostrano comportamenti atipici, mentre nel caso degli adolescenti il procedimento è inverso: sono loro che si rivolgono direttamente ai nostri centri, delegando a noi un primo contatto con i loro familiari”.
L’Italia e un tabù duro a morire – In Italia esplorare la propria identità non è ancora cosi facile. Nonostante lo smussamento degli stereotipi di genere che oggi sono socialmente meno rigidi e un orientamento scientifico che vede la disforia come un’espressione d’identità di genere e non una patologia, il fenomeno continua a essere considerato una specie di tabù, specialmente quando coinvolge bambini molto piccoli. Eppure sono diversi i centri che dal 2000 hanno aperto le porte anche a pazienti piccolissimi e ai loro genitori. Da Roma a Torino, senza dimenticare Napoli, Milano e Firenze, dove nel 2013 il primario del reparto di Medicina della sessualità dell’Ospedale Carreggi, Mario Maggi, ha chiesto il via libera alla Regione per l’utilizzo di trattamenti ormonali sui bambini e gli adolescenti che presentassero uno sviluppo puberale in contrasto con l’identità di genere percepita.
I dati del Saifip: incidenza doppia tra i bimbi maschi – uno dei servizi di consulenza e di sostegno al percorso di adeguamento per le persone che intendono chiedere la “rettificazione di attribuzione di sesso”, all’interno dell’ospedale San Camillo di Roma – concordano con altri Istituti di ricerca italiani specializzati nel registrare la presenza della disforia di genere, sul fatto che questa condizione si manifesta con maggior frequenza in età infantile e adolescenziale, in circa il 2-3% della popolazione pediatrica. In particolare sarebbero i maschi dai 2 ai 12 anni a soffrirne maggiormente, con una incidenza doppia rispetto alle femmine. Per quanto riguarda invece gli adolescenti tra i 13 e i 18 anni, i dati del Centro sottolineano un forte incremento negli ultimi due anni soprattutto degli FtoM (femmine che decidono di diventare maschi), legato alla maggiore diffusione delle informazioni e in parte al fatto che, grazie a internet, gli adolescenti scoprono l’esistenza di un servizio come il Saifip. È invece l’Istat a sottolineare l’alto livello di abbandono scolastico degli adolescenti con disforia di genere (il 38% rispetto al 17% della popolazione), che in genere avviene in seguito a pesanti prese in giro, a forme di isolamento da parte dei compagni di classe o a episodi di vero e proprio bullismo.
L’esperienza avanzata del Gids di Londra – Punto di riferimento nel settore, e uno dei primi due centri in Europa ad aprire nel 1989 le porte anche ai bambini, è stato il Gender Identity Development Service (Gids) di Londra, all’interno del Tavistock Institute. Negli ultimi 7 anni il centro, che dal 2009 riceve un finanziamento nazionale, ha registrato una crescita di casi under 18: dai 94 nel 2009/2010 a ben 969 nel 2015/2016. L’incremento, secondo il direttore del Centro, Polly Carmichael, sarebbe da ricollegare a diversi fattori tra i quali una maggiore consapevolezza e accettazione da parte dei familiari, un più facile accesso ai servizi specializzati nel trattare la disforia e un maggiore interesse da parte degli under 18 nell’esplorare il genere grazie anche al ruolo dei media e social media. “Il senso di vergogna e di segretezza – racconta a RepubblicaDomenico Di Ceglie, psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e fondatore del Gids – hanno spesso impedito alla diversità di emergere, così anche il sostegno a livello psicologico e sociale è venuto meno. Quanto l’informazione sia importante lo dimostra il caso di un articolo sulla disforia di genere nei bambini, al quale ho collaborato, scritto agli inizi degli anni 90′ sul quotidiano inglese Independent, che portò molti genitori a contattarmi e a chiedere un aiuto professionale”.
L’importanza del servizio pubblico – Aiuto che secondo il professore è necessario sotto vari punti di vista. “Gli interventi professionali di tipo psicoterapeutico o di counselling – precisa Di Ceglie – possono contribuire ad alleviare il disagio nel bambino, spesso deriso a scuola o non compreso all’interno delle proprie famiglie, mentre i genitori possono partecipare a gruppi di sostegno e di auto-aiuto per superare l’isolamento nel quale si trovano a vivere”. Oggi, il Gender Identity Development Service offre approcci multi-disciplinari, volti a tutelare sia lo sviluppo sereno del bambino sia a considerare il contesto familiare e sociale in cui vive. Inoltre, il fatto che alle spalle ci sia il Nhs, il Servizio sanitario nazionale inglese, è sinonimo di garanzia sia per il sostegno sia per il controllo sul tipo degli interventi che vengono fatti. Senza dimenticare la maggiore facilità di accesso rispetto ai centri italiani. Non a caso è sempre nel Regno Unito che nel 98′ sono nate le prime linee guida infantili, punto di riferimento sia per gli utenti che per i professioni del settore, seguite tre anni dopo da quelle prodotte dall’associazione internazionale Wpath, la Word Professional Association for Transgender Health.
Fonte: repubblica.it