Li chiamano cervelli in fuga, talenti, ma spesso sono soltanto dei giovani laureati o studenti che preferiscono tentare la loro fortuna e la loro carriera nel mercato globale, fuori dai confini. Nel 2015, ultimo dato disponibile certificato dall’Istat, sono stati 23 mila, con un aumento del 15 per cento rispetto all’anno prima. E sono dati per difetto. Con una sola certezza: rispetto a tutte le emigrazioni precedenti dalla fine dell’Ottocento in poi, questa è la prima migrazione di giovani che partono con il diploma in tasca. E lasciano qui un’Italia con i figli lontani.
«Mancano le politiche industriali»
Se si considerano i cittadini italiani emigrati con più di 24 anni, il 31 per cento ha la laurea: la media di laureati tra i cittadini italiani è del 14,8 per cento. E questa diaspora è un fenomeno che aumenta proprio mentre gli spostamenti all’interno del nostro Paese sono in diminuzione costante. «Nelle precedenti emigrazioni chi partiva erano gli scarsamente acculturati e preparati che non trovavano più lavoro in Italia, ora parte la meglio gioventù, un capitale umano molto elevato – spiega Antonio Schizzerotto, professore di sociologia a Trento e che ha collaborato per il Mulino al volume «Generazioni disuguali» – Si tratta di un vero e proprio impoverimento del nostro Paese che esporta medici e ingegneri e importa badanti. Purtroppo il motivo principale è che non esiste una vera e propria domanda di capitale umano perché si è storicamente puntato sulle politiche del lavoro invece che su quelle della produzione».
«Ma l’Europa è come casa nostra»
Partono i giovani, sono la metà degli emigrati coloro che hanno tra i 15 e i 39 anni. Ma vanno soprattutto in Europa, Regno Unito e Germania, almeno fino alla Brext sono state le due mete preferite degli emigrati, seguite da Svizzera e Francia. Partono in tanti dalla Sicilia ma tantissimi anche da Lombardia, Veneto e Trentino . «Intanto dobbiamo dire che i movimenti all’interno dell’Europa non possono considerarsi come delle vere e proprie emigrazioni, ma come spostamenti anche fisiologici: piuttosto dovremmo chiederci perché i tedeschi o i francesi non vengono da noi», si domanda Francesco Billari, professore di demografia alla Bocconi.
Le famiglie disgregate, scompaiono le tradizioni
Ma è vero che visto dalla parte di chi resta, «è la prima volta soprattutto partono i figli unici. In passato le famiglie non si disgregavano o perché finivano per partire tutti o perché c’era sempre uno o due figli o figlie che restava indietro. Ma oggi questo fenomeno porrà delle sfide al welfare: la popolazione sarà mediamente più vecchia di quel che ci si aspettava e sarà più sola per quel fenomeno che si definisce già il “care drain”». Certo tecnologie e trasporti rendono più semplice la lontananza per esempio all’interno dell’Europa ma ci sono momenti in cui la vicinanza anche fisica è fondamentale, insostituibile: «Non solo, oggi 150 mila italiani che se ne vanno possono sembrare pochi, ma proiettiamo la cifra in dieci anni, fa 1 milione e mezzo».
Come perdere Rimini
Nel 2015 sono partiti in 102mila italiani e tornati 30 mila, stando ai dati dell’Istat che misura le iscrizioni all’anagrafe degli italiani all’estero, l’Aire) e dunque c’è da credere che siano in realtà di più. Cinque anni prima, nel 2011, se ne erano andate 82 mila persone, poco più della metà. Una stima del centro studi Idos fa salire il numero degli espatriati a 285 mila, nel 2016. Se davvero si dovesse confermare significa che l’emigrazione è simile a quella dell’ultimo dopoguerra. Ma se anche si confermassero per lo scorso anno le tendenze rilevate dall’Istat è come se ogni anno l’Italia cancellasse dalla sua cartina Rimini, come se tutti gi abitanti della città della costa romagnola partissero per l’estero.
Fonte: corriere.it