Questa è la patologia dell’abbandono, della deprivazione. Ma la normalità? A me pare che il problema più grande delle famiglie italiane è che di figli ne fanno ormai davvero pochi. E chi se ne lamenta, segnalandolo come il problema principe della nostra comunità, viene subito trattato come un reazionario, un tradizionalista, un cripto-fondamentalista.
«La laicissima Francia ha preso di petto il problema della natalità, e ha messo in campo negli anni delle politiche di aiuto alle famiglie che hanno avuto ottimi risultati, tanto che oggi la natalità è più o meno sul tasso di rimpiazzo demografico, due figli per ogni donna in età fertile; mentre noi siamo a 1,32, praticamente il Paese dell’Occidente dove si fanno meno bambini. E — sono d’accordo — non è solo un problema sociale o economico. Anche se occupazione femminile, sgravi fiscali, asili nido, tempo parziale, contributi per il baby sitting, sono fattori decisivi per consentire a chi vuole generare di provarci. Ma poi ci sono anche quelli che non vogliono figli perché trovano più bella una vita senza, o li vogliono il più tardi possibile, e spesso è troppo tardi. E questo è un fatto culturale. I figli sono considerati problemi, impegni, condizionamenti, in conflitto con la realizzazione dei propri desideri. L’ha scritto anche il Papa nell’esortazione Amoris laetitia, e secondo me ha ragione, che c’è in giro troppo individualismo. Nel rapporto 2016 l’Istat calcola che il 34% delle famiglie italiane non ha figli. E del rimanente 66% con prole, il 46 per cento ha un solo figlio. È scomparso un mondo, quello dei fratelli e delle sorelle. Un mondo che consentiva ai ragazzi di non essere adultizzati fin dalla nascita, di avere un’infanzia. Se non partiamo da questo epocale cambiamento non comprendiamo niente. Una società che non fa figli si spegne».
Con la denatalità muoiono anche idee e valori del passato. Come si fa a spiegare la «fraternità» a una generazione di figli unici?
«Inoltre un bambino che cresce solo con gli adulti è spesso vittima di una iperstimolazione, che è l’altra faccia dell’abbandono, ma ha effetti negativi sullo sviluppo infantile. Li ha visti tutti questi bambini tenuti al ristorante fino a ora tarda? E tutte quelle che io chiamo le protesi educative? Il tablet già nel passeggino, il video per i viaggi in treno, YouTube a colazione, come se avessimo assunto una balia elettronica per essere un po’ lasciati in pace. Ci sono ricerche che dicono che già a otto mesi un bimbo cui vengano offerti un pupazzo e uno schermo rivolge la sua attenzione allo schermo. Così si mettono le basi per forme patologiche di dipendenza dal video. Un bambino che va a letto con la storia letta dai genitori invece ne trae un vantaggio non solo in termini di sviluppo del linguaggio, ma anche di abilità sociale, perché impara il gioco dei significati del comportamento umano, il codice della crescita».
Prima parlavamo dei dati Istat. Ma secondo lei è «famiglia» anche un nucleo senza figli? Gli inglesi dicono «household» che è un termine più neutro e generale, indica i gruppi umani che vivono insieme, non necessariamente legati da rapporti di sangue.
«Dal punto di vista statistico, in Italia vengono definite famiglie anche i nuclei composti da una sola persona, cioè i single. E non voglio certo discutere qui dello stile di vita che ciascuno si sceglie. Ma è un fatto indiscutibile che noi umani siamo dotati di un apposito sistema di care-giving predisposto dall’evoluzione nella corteccia orbito-frontale, e che serve a prendersi cura dei piccoli della specie. È una esigenza, diciamo così, biologica. Dal punto di vista sociale, poi, dobbiamo sapere che in una famiglia con figli è più agevole l’acquisizione di quella caratteristica cruciale dell’essere umano, il suo vero successo evolutivo, che chiamiamo “mentalizzazione”, e cioè la capacità di vedere il punto di vista degli altri, di capire che il comportamento dei simili nasce da stati d’animo simili ai nostri. Vale per i ragazzi, che se non fanno questa esperienza in famiglia poi arriveranno senza maturità all’incontro con il gruppo dei coetanei; ma vale anche per gli adulti, che diventando genitori imparano a vedere il mondo attraverso gli occhi dei figli, una singolare e travolgente esperienza di trasformazione. E la “mentalizzazione” è contagiosa, è una scuola di educazione al vivere in società».
Adesso che me lo dice capisco che cosa è che non va nei «social»: mancano persone disposte a mettersi nei panni dell’altro, per vedere le ragioni altrui, che è poi la condizione sine qua non della società aperta e della discussione pubblica. Ma che succede a un adolescente se in famiglia non riesce ad apprendere questa skill della «mentalizzazione»?
«Succede quello che è successo a Manduria, o a quel gruppo di giovani della periferia romana che hanno preso a sassate un rider di colore che si pagava l’università consegnando la pizza. Succede che alla logica della società, che è inclusiva, si sostituisce quella del gruppo, o peggio del branco, che è esclusiva. Sempre più spesso anche il social network è un branco. In quella logica si è inclusi se si esclude il fragile, il goffo, il timido, il malato, il disabile, il nero, chiunque sia in una condizione di vulnerabilità. L’Unicef calcola al 37% la percentuale dei ragazzi che sono stati in un modo o nell’altro vittima di episodi di bullismo. Perché i deboli, a quella età, sono tanti. E la socializzazione malata, priva della educazione che avviene in famiglia, è spietata nel rifiutare la debolezza».
Se ho capito bene lei sta dicendo che gli adolescenti narcisisti di oggi sono la prima generazione di bambini cresciuti in famiglie narcisiste?
«Esattamente. Escludere l’altro per sentirsi incluso. Questo è il contrario della socializzazione, è la tribù. L’esperienza del rifiuto è poi drammatica per chi la subisce. Ha conseguenze serie sullo sviluppo del carattere e genera stati d’ansia e di depressione. Io osservo nella mia esperienza che questo meccanismo è ormai prassi nelle scuole superiori; anche, e forse perfino di più, nei migliori licei delle grandi città, dove i professori sembrano disarmati, e i genitori distratti. E guardi che ciò che succede nelle discoteche dei quartieri borghesi di Roma, dove di recente è stata violentata una ragazza etiope da tre giovanissimi, alcol, sostanze, pasticche, viene sempre più spesso iscritto alla categoria dello “sballo”, come se fosse una forma naturale, e solo un po’ più esuberante, di divertimento. Arancia meccanica di Kubrick era la storia di un gruppo di psicopatici. Ma quanto profetico è stato quel film nello svelare il sottile piacere della sopraffazione, della intimidazione e della violenza che dorme in ciascuno di noi, e che solo quella raffinatissima forma di educazione che è la cultura può dominare. Ciò che è successo a Manduria a quel povero sessantenne, morto al culmine di un calvario di cattiveria gratuita e di sevizie, è l’arancia meccanica dei giorni nostri».
Cosa ci può salvare? Cosa è rimasto di buono nella famiglia italiana? Cosa dovremmo fare, oltre che fare più figli, stare di più con loro, saper correre il rischio educativo?
«Ci può salvare l’impegno. L’etica della responsabilità. Un bene comune da perseguire. Ci sono milioni di volontari in Italia. Quella è la cura. Ci sono 150.000 scout, quella è la palestra. Ma l’impegno civile potrebbe vivere in mille altri modi. Le racconto un episodio che ho vissuto di persona, e non dimentico. Dopo il terremoto dell’Aquila, un gruppo di università italiane pensò di replicare ciò che l’ateneo di Harvard aveva fatto in Giappone, a Kobe, dopo il terribile sisma che l’aveva colpita. Proponemmo al ministero dell’Istruzione un progetto per coinvolgere i ragazzi delle scuole nella ricostruzione, dedicandovi due pomeriggi alla settimana in cambio di un piccolo salario. L’esperienza di Kobe aveva dimostrato che un impegno collettivo poteva aiutare a combattere quei fenomeni di spaesamento, depressione, isolamento sociale, che spesso si accompagnano alle catastrofi nel comportamento dei giovani. Ci risposero che erano troppo giovani per quel tipo di cose, che i ragazzi andavano piuttosto tirati su di morale, che nelle scuole avrebbero invece mandato i clown. Ecco che cosa intendo: non li prendiamo mai sul serio, non crediamo che possano diventare adulti, forse perché noi genitori rifiutiamo di esserlo, e ormai siamo già cinquantenni quando loro diventano adolescenti, e così si somma la nostra crisi di invecchiamento alla loro di crescita. Ci capita addirittura di entrare in competizione, quasi invidiandone la gioventù. Si formano così famiglie liquide, un magma dove le generazioni non si distinguono più, e nelle quali inevitabilmente l’autorità deperisce e svanisce, perché nessuno se la sente più di incarnarla».
Ma esercitare la propria autorità con i figli è diventato pericoloso. Chi prova a mettere regole in casa si trova di fronte alla contestazione classica: ma gli altri lo fanno. Se resisti sull’acquisto del telefonino ti mostrano i compagni che ce l’hanno. Abbiamo paura di essere odiati dai figli, di non essere buoni genitori…
«E invece i genitori questo devono fare, se sono adulti e non adultescenti. Un genitore buono è un genitore finito, che ha rinunciato al suo compito di educatore. Le regole non possono più essere certamente imposte come accadeva quando eravamo ragazzi noi. Non è più il tempo per padri padroni, ma questo non vuol dire che non ci sia bisogno di regole. Discusse, frutto di mediazioni, costruite per quanto possibile con il consenso, ma servono. Sono gli stessi ragazzi, inconsciamente, a chiederci una guida. Altrimenti, senza una leadership, neanche la ribellione è possibile, e invece è la cosa più sana che possa succedere a quella età».
Un tempo i ragazzi avevano fretta di crescere e di andarsene, proprio per emanciparsi dall’autorità paterna, fare di testa propria, costruirsi la libertà e l’intimità di cui un adulto ha bisogno. Oggi questa fretta non c’è anche perché i genitori non esercitano più tanta autorità, li trattano come fratelli e li proteggono come se ne fossero i sindacalisti?
«I genitori devono fare il possibile perché i figli conquistino la loro autonomia e vadano via di casa, a cominciare la loro vita. Attenzione ai falsi sentimentalismi. Troppo spesso li tratteniamo dicendo a noi stessi che sono loro a voler restare. Convivenze eccessivamente lunghe tra generazioni diverse sono innaturali. Io scolpirei sullo stipite di ogni porta, in ogni casa, una frase di Erik Erikson, lo psichiatra che negli anni 60 studiò il tema della identità: “Se i genitori non accettano la propria morte, i figli non potranno entrare nella vita”. Il più delle volte sbagliamo proprio per questa paura inconscia. Oscuramente avvertiamo che la loro crescita si accompagna alla nostra fine. E proviamo a impedire entrambe. Perché l’uomo del Duemila, nel suo delirio di onnipotenza, pretende di vivere come se fosse immortale».