I titoli spesi ieri dai mass media nel riportare il caso deciso dai giudici capitolini appaiono riduttivi e forieri di perplessità, lasciando intendere che sia sufficiente adoperare, da parte di un genitore, qualche aggettivo negativo verso l’altro per incorrere in un tal risarcimento, certo appariscente. Soprattutto se in tempi di crisi.
La questione è invece assai più complessa, poiché i giudici addivengono ad una tale misura risarcitoria (di un danno non patrimoniale) solo in casi gravi e provati, in cui un genitore abbia ostacolato per un lasso di tempo certo non breve (dunque non episodico ma per settimane, mesi e in alcuni casi molti anni) il rapporto figlio-genitore, denigrando l’altra figura, sostituendola, impedendone la presenza. Condotta che può determinare una vera e propria alienazione parentale (tema assai delicato che ho trattato nel libro Casonato, Mazzola, Alienazione genitoriale e sindrome da alienazione parentale (Pas)”, Key ed., giugno 2016). Nella sentenza si legge che “la [madre] non può ritenersi esente da responsabilità non avendo posto in essere alcun comportamento propositivo per tentare di riavvicinare [il minore] al padre risanandone la relazione in direzione di un sano e doveroso recupero necessario per la crescita equilibrata del minore già gravemente sofferente a causa della patologia di cui è afflitto sin dalla nascita, ma al contrario continuando a palesare la sua disapprovazione in termini screditanti nei confronti del marito. Sarebbe stato per conto precipuo onere [della madre] … attivarsi al fine di consentire il giusto recupero del ruolo paterno da parte del figlio che nella tutela della bigenitorialità cui è improntato lo stesso affido condiviso postula in necessario superamento delle mutilazioni affettive del minore da parte del genitore per costui maggiormente referenziale nel confronti dell’altro, non soltanto spingendolo verso il padre, anziché avallando i pretesti per venir meno agli incontri programmati, ma altresì recuperando la positività della concorrente figura genitoriale nel rispetto delle decisioni da costui assunte e comunque delle sue caratteristiche temperamentali“. Il genitore dominante (nei tempi di frequenza col figlio) non può dunque sminuire, denigrare ed indebolire il ruolo dell’altro genitore, poiché una tale condotta determina conseguenze rilevanti sull’equilibrio (e dunque sano per il suo sviluppo psico-fisico) del minore. Con la sentenza la madre è stata condannata, ai sensi dell’art. 709 ter cod. proc. civ., al risarcimento del danno nei confronti del padre, per l’importo di € 30.000,00. Tale sentenza è certamente assai importante per i seguenti motivi: 1) applica con diligenza il prezioso e chiarissimo strumento dell’art. 709 ter cod. proc. civ. (che per anni è stato volutamente trascurato dai giudici), fondamentale sia in chiave preventiva, sia in chiave risarcitoria che punitiva; 2) riconosce un congruo risarcimento per i danni patiti per un lungo periodo, a fronte della frantumazione di diritti fondamentali della persona; 3) invita implicitamente le altre corti di giustizia (quelle compiacenti, silenti, ossequianti) a riflettere sulle proprie aberranti prassi. Non è certo un caso che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo continui costantemente a condannare l’Italia per la violazione dell’art. 8 CEDU a fronte della incapacità di questo nostro paese retrogrado di tutelare i rapporti tra genitore (tranne qualche eccezione sempre padre) e figli [ancora da ultimo, tra le decine di pronunce: Strumia c. Italia (n. 53377/13) 23.6.2016, un caso inerente l’interruzione del rapporto tra un padre e la figlia durato 8 anni, a seguito di false denunce della madre per abusi sulla minore e un caso abnorme di alienazione parentale; S.H. c. Italia (n. 52557/13) 13.10.2015, un caso inerente l’intervenuta adottabilità del figlio in danno della madre]. Fonte: ilfattoquotidiano.it