I giovani, una generazione di passaggio

Secondo un recente rapporto dell’Eurostat, 7 giovani su 10, tra 18 e 34 anni, in Italia, vivono ancora in casa con i genitori. giovaniE la quota si abbassa, ma non di molto, dopo i 25 anni: 50%. Uno su due. Il dato più elevato in Europa. Da ciò l’immagine dei giovani mammoni, che ormai appartiene all’iconografia nazionale. Associata al profilo del lavoro, meglio, del non-lavoro, che emerge, in modo sempre più marcato. Visto che i tassi di disoccupazione giovanile, in Italia, sono altissimi, 50%. Superiori, anche in questo caso, al resto d’Europa. E restano elevati (intorno al 30%) anche se “depurati” da coloro che non sono in condizione lavorativa, perché ancora impegnati nell’attività scolastica. Insomma, se potrebbe ricavare l’immagine di una generazione “dipendente” e un po’ sciattona. Incapace di affrancarsi dal vincolo familiare. O, forse, poco interessata a farlo. Per interesse e per comodità. In effetti, questa rappresentazione appare parziale e distorta. Parziale, perché non racconta per intero la storia del rapporto con il lavoro dei giovani italiani. Disoccupati e, in grande numero, neet. Cioè: fuori dalla scuola e dal lavoro. Ma anche, e ancor più, precari e intermittenti. Il lavoro a tempo indeterminato, per loro, è, ormai da tempo, una prospettiva irrealistica. Semmai, l’insistenza sulla dipendenza dalla famiglia e dal “nido domestico” si dovrebbe associare a un altro carattere “nazionale” dei giovani. Il nomadismo. Si tratta, infatti, della componente più ampia fra coloro che, ogni anno migrano dall’Italia. Oltre 100 mila. Diretti, prevalentemente, in Germania, in Gran Bretagna. E in Francia. Per motivi di studio. E di lavoro. Perché i giovani italiani pensano, in larga maggioranza (70%), che, per trovare opportunità di lavoro coerenti con le loro attese e i loro requisiti, occorra partire. Andarsene dall’Italia. Come, effettivamente, avviene, in misura ampia e crescente. Questi aspetti contribuiscono meglio precisare – e a smentire – il ritratto dei “mammoni”. Replica di altre caricature proposte nel corso degli anni: dai “fannulloni” ai “bamboccioni”. Giovani ritenuti colpevoli della propria condizione di in-attività. Naturalmente, le responsabilità dei giovani esistono, ci mancherebbe. Ma sarebbe inutile, comunque, poco utile e auto-assolutorio, per noi, trasferire su di loro le responsabilità della marginalità giovanile sul mercato del lavoro e, più in generale, nelle gerarchie sociali ed economiche. Quando sono note le deviazioni “protezioniste” della società italiana, certamente, poco meritocratica. In primo luogo, nel lavoro. Anche per il ruolo della famiglia. Istituzione molto più influente da noi, rispetto agli altri Paesi europei – e non solo. Riflesso della tradizione nazionale, ma, forse ancor più, dei limiti del nostro sistema di welfare. E, più in generale, della scarsa efficienza delle istituzioni e dei servizi pubblici. Tuttavia, è errato sostenere che i giovani “vivano” oppure “restino” in casa con i genitori. Meglio e più corretto sarebbe dire “risiedono”. Perché, in effetti, in casa con i genitori “ci restano” poco. Vanno e vengono. Si spostano. Da una casa all’altra. Da una città all’altra. Dipende, dai periodi. Se studiano all’Università, in Italia o all’estero. Oppure se lavorano, da precari. Di nuovo: in Italia o all’estero. Perché molti Neet, in effetti, sono semplicemente giovani perduti, meglio, dissimulati, fra le pieghe del lavoro sommerso. La famiglia, la casa: sono sponde utili, in tempi instabili, mentre sperimentano i loro percorsi mobili e intermittenti. Perché permettono ai giovani di perseguire le loro scelte, i loro obiettivi, riducendo i rischi personali. Mentre la presenza, per quanto rara e ipotetica, dei figli rassicura anche i genitori. Che soffrono, sempre più, di solitudine. Perché l’Italia è il Paese dei figli unici. Come avviene in circa metà dei nuclei familiari. Così, anche se il loro figlio unico è lontano, i genitori se lo tengono stretto. Ben legato al loro domicilio domestico. Per sentirsi meno soli. E se lo vedono poco tengono contatti costanti, con gli smartphone, i social media. I giovani. Lontani e vicini, al tempo stesso. Mentre loro vanno e vengono. La casa: è un porto. Dove si arriva e si riparte. Dopo aver cambiato valigia ed essersi cambiati. Un saluto, un po’ di riposo, e via di nuovo. A casa: si passa – e si ripassa – fra un viaggio e l’altro. Perché i giovani, oggi, sono una “generazione di passaggio”. Fonte: repubblica.it